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      Le ombre proiettate sul pavimento tremavano più forte, come se tentassero di alzarsi e di volarsene via. Tihon Pàvlovitsc lasciò il davanzale della finestra, scostò di nuovo la poltrona e si avvicinò al letto. Buttata a traverso il letto di piume, sua moglie soffiava col naso e russava, con le braccia pienotte largamente aperte. Quelle braccia e quel petto scoperto parvero a Tihon Pàvlovitsc poco convenienti e provocanti in quel momento. Avendo buttato con collera il lenzuolo sul corpo della moglie, prese un guanciale, e, essendosi avvicinato di nuovo alla finestra, sedette nella poltrona, pose il guanciale sul davanzale, vi poggiò i gomiti e si diede a pensare. Dopo quel funerale qualcosa era sorto in lui che gli permetteva di considerare sè stesso come un essere del tutto estraneo, benchè conosciuto da lui, ma nuovo nello stesso tempo da qualche lato.
      - Ahi, ahi, ahi, Tihon, ahi, ahi! mormorò egli scuotendo il capo. - Che è ciò, amico mio? si disse con accento di rimprovero, non si sa se per la vita anteriore, o per quella nuova vita d'angoscia che si preparava per lui.
      E, non si sa perchè, ricordò uno stormo di piccioni bianchi svolazzanti al di sopra del cimitero, in quel giorno memorabile del funerale dello scrittore.
      Rivide con gli occhi chiusi quei punti bianchi nel cielo turchino... e si fece di nuovo fra sè dei rimproveri...
      «Ebbene, vecchio mio, sei preso in fallo, a quanto pare! Prova un po' a vivere, ora... C'è di che farsi cattivo sangue.»
      E tutto, d'intorno, era così nettamente chiaro e silenzioso nello stesso tempo, come se si preparasse qualcosa d'incomprensibile, di pauroso.


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Il burlone - L'angoscia
di Maksim Gor'kij
Salvaore Romano Editore
1906 pagine 99

   





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