Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all'«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l'essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Cosí molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l'essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l'enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere). Wagner (cfr. l'Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l'espressione del genio tedesco, invitando cosí tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere. Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C'est le rôle des maîtres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch'essi, in questa processione.
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