A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per "signorine"».
Molte contraddizioni, improprietà e ingenuità melense nell'articolo del Fenu. Ma la conclusione implicita è giusta: il cattolicismo è sterile per l'arte, cioè non esistono e non possono esistere «anime semplici e sincere» che siano scrittori colti e artisti raffinati e disciplinati. Il cattolicismo è diventato, per gli intellettuali, una cosa molto difficile, che non può fare a meno, anche nel proprio intimo, di una apologetica minuziosa e pedantesca. Il fatto è già antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere», d'allora in poi, è diventato pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. Da allora la chiesa ha adoperato un doppio metro, per misurare l'ortodossia: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo, al quale non si domanda che di «credere» genericamente e di avere ossequio per le pratiche del culto: nessuna lotta effettiva ed efficace contro la superstizione, contro le deviazioni intellettuali e morali, purché non siano «teorizzate». In realtà un contadino cattolico, intellettualmente può essere inconscio protestante, ortodosso, idolatra: basta che dica di essere «cattolico». Anche agli intellettuali non si domanda molto, se si limitano alle esteriori pratiche del culto; non si domanda neanche di credere, ma solo di non dare cattivo esempio, trascurando i «sacramenti» specialmente quelli piú visibili e sui quali cade il controllo popolare: il battesimo, il matrimonio, i funerali (il viatico ecc.
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