È proprio l'insincerità, la mania letteraria che impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti piú modesti. Per il razzo di una trovata, per il barbaglio di una situazione piccante o di un personaggio che nessuno ha mai posto in scena, si sacrifica tutto quello che può veramente dare ossa e carne a una commedia.
E cosí sia, se cosí meglio piace.
(13 febbraio 1916).
L'«Amleto» con Ruggeri al Carignano. La compagnia di R. Ruggeri ha ripreso l'Amleto, e, se è lodevole lo sforzo che l'attore ha fatto per dare di Amleto una raffigurazione pienamente umana, non si può però dire che Shakespeare sia stato bene interpretato. Sicuro: perché nelle opere del tragico inglese non c'è solo il protagonista, e la tragedia non è solo la tragedia di questo. La caratteristica del capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella saturazione di poesia di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona del dramma; niente c'è di inutile, niente da trascurare, ogni anche piccolo accenno concorre alla catastrofe ed è indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di diventare un dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale. Tutti i personaggi sono grandi nella concezione shakespeariana: fortemente messi in rilievo, e presi nel turbine di fatalità che ha in Amleto la vittima principale; e se non si riesce a dare di tutto ciò che la concezione del lavoro vuole, Amleto continuerà a essere pietra di paragone per la virtú di plasticità dei nostri migliori attori, ma non sarà l'Amleto di Shakespeare, e il pubblico, pur persuaso di aver sentito un capolavoro (lo dicono tutti e da tanto tempo) uscirà da teatro con qualche delusione e lievemente propenso a non credere del tutto ai capolavori.
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