E poiché i giudizi del pubblico e della critica milanese furono cosí vari e discordi, la seconda prova tentata a Torino potrà aver valore di giudizio di appello e decisivo.
(22 maggio 1916).
In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain Rolland ha incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento critico migliore della tragicità dell'autore inglese: «Shakespeare nel creare i suoi personaggi procede senza sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso riveste il suo pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; mai egli muove dal di fuori». Cadono cosí tutte le interpretazioni che del Macbeth la critica giornalistica ha recentemente cucinato per il grande pubblico. Non tragedia dell'orrore, né della paura, né dell'ambizione, come è stata volta a volta chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere, ben definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il dramma, e ne è l'eroe. È una volontà, cosí, senz'altro; volontà che riceve stimoli all'azione dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua personalità e fa propri, senza perdere un atomo della libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli uomini, e senza la quale non può esservi tragedia. Shakespeare lo ha posto in un ambiente storico, in un tempo e in luogo nei quali anche il soprannaturale era elemento della realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto perciò questo soprannaturale non è meccanico, non è astrazione fredda, non è ripiego comodo per trarre dai fatti elementi di successo; è certo esistenza, integrazione necessaria del dramma.
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