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      L'opera deve rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita, dalla fantasia dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una personalità che è stata concepita in quel dato modo e in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la libertà crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth di Ruggeri e dimenticare alquanto quello di Shakespeare. E l'uno è infinitamente inferiore all'altro e l'adattamento non può avvenire con facilità, senza mortificazioni.
      Ruggeri ha cercato per quanto gli è stato possibile, di ridurre la tragedia alla sua persona. L'ha modernizzata, in un certo senso, poiché le opere che egli è solito dare con piú successo, si conchiudono in un solo eroe, che come il tenore dei melodrammi diventa centro dell'universo. E Shakespeare invece è polifono: le azioni dell'eroe trovano risonanze in tutto l'ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di molti particolari nuoce, cosí, enormemente, alla rappresentazione dell'eroe stesso, lo rende meno vivo. Vedere davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale piú che il sentirla ricordare dall'assassino. Vedere come Banco sia fraudolentemente sgozzato, accresce l'orrore della rievocazione dello spettro. Vedere come fossero vivi lady Macduff, e i suoi figlioli, e come i sicari tronchino nelle loro gole la parola ingenua, il rimbrotto femminile, è necessario per l'effetto d'insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di sangue e d'orrore.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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