È un fascino difficile da definire, difficile perché il costume non libero dai pregiudizi della morale volgare, dà apparenza di volgarità a ciò che non è certamente tale che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si esprime con la parola banale di femminilità.
Ma non è possibile nella cronaca fare piú che delle affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare l'osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare un po' la loro retina da certi pregiudizi.
(22 dicembre 1916).
«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri. Cerchiamo invano in questi nuovissimi tre atti dialogati di Roberto Bracco un punto di appoggio, una giustificazione delle parole e dei gesti che sentiamo dire e vediamo fare dai personaggi. Il dialogo si esaurisce in se stesso, è solo vuota declamazione, i gesti sono solo irritazione di muscoli motori, non segni fisici di un linguaggio interiore. I tre atti sono un susseguirsi disorganico e disordinato di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la fantasia dell'autore riesca ad attuare la sua intenzione rappresentandosela in una azione concreta e avvincente. Sentiamo che questa intenzione è diffusa blandamente in tutte le parole, le discussioni, le declamazioni retrospettive, e passiamo di illusione in disillusione, sempre in attesa che la sfinge riveli il suo enigma, e convincendoci infine che la sfinge è solo una larva di stucco e non racchiude alcun enigma.
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