Edmond Rostand ebbe rispetto del grande morto, e forse ebbe paura del paragone che non poteva mancare. La sua rinunzia fu pertanto anche un atto di probità. E Augusto Berta che della probità ha fatto in tempi non lontani la divisa melensa della sua attività letteraria, non ha esitato a presentarsi nella veste di umbra (i latini con spirito chiamavano ombre i parassiti) di un grande. La sua fregola di letterato mancato e deficiente si è sfogata oscenamente su una creazione poetica collettiva che aveva ormai trovato anche un'espressione individuale definitiva. E ha cucinato sul disgraziato Pierrot un guazzetto disgustoso, che solletica i cattivi istinti del pubblico ora con la piú volgare galanteria da gabinetto riservato ora con un pruriginoso sentimentalismo in versi martelliani in cui di poesia non c'è che l'affermazione sazievolmente ripetuta di essere poesia. È questa bassa volgarità versaiola che maggiormente offende il gusto di chi ha letto il de Banville, questa piatta gelatinosità in cui l'amore, la vita, la gelosia, i rapporti sessuali, sono visti, concepiti ed espressi come si suole leggere nelle pubblicazioni da caserma: «L'amore Illustrato», il «Capriccio», o la «Sigaretta». È seguíto il solito sistema della tricotimia simmetrica, dei tre puntelli legnosi: le tre cene, come ieri erano le tre età della pietra, del ferro e dell'oro. L'azione è nulla: Pierrot prende moglie; Pierrot sta per essere tradito da sua moglie, Viviana la fioraia, col marchese di Priola (altra dolciastra caricatura che al brio e allo spirito di don Giovanni della commedia francese sostituisce i palpeggiamenti postribolari sotto il tavolo); Pierrot che uccide il rivale e poi muore avvelenato dai profumi di un fiore orientale, per elezione spontanea.
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