Chi si era troppo compromesso con lo scetticismo, chi aveva lasciato troppi documenti della sua superficialità spirituale, con rappresentazioni gaglioffe di una vita d'eccezione presentata come tutta la vita, ha cercato una via d'uscita, ha gridato al miracolo. La guerra ha fatto il miracolo, le sofferenze e le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto il miracolo. Rimane l'insincerità interiore, rimane la meccanizzazione interiore della vita. La guerra, moralmente, non fa diventare né generosi, né ribaldi, perché può far diventare l'uno e l'altro, e non è ancor detto quali siano in maggioranza questi prodotti, non della guerra, ma delle riflessioni, dei giudizi, delle esasperazioni, degli entusiasmi che la guerra ha servito a rinsaldare o a liquefare a seconda degli uomini, della loro preparazione morale, della loro preparazione umana. La guerra può aver elevato molti o pochi uomini, non ha elevato E. Bernstein: nel caso nostro non lo ha fatto diventare artista, non gli ha suscitato una fantasia creatrice. Egli è rimasto ciò che era ieri: un abile scrittore di teatro, un abile alchimista di parole. La guerra non può far diventare poeta un mercante di parole: può dare semplicemente uno spunto nuovo, può suggerire diversi accostamenti di parole: la macchina generale rimane la stessa. C'è un marito vecchio, che è uno scienziato, ed è un religioso della volontà, che opererebbe cosí come opera anche senza il fattore guerra: sarebbe in qualche istante meno retorico, e forse neppure, perché tutto può diventare retorica.
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Bernstein
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