(27 febbraio 1918).
«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella. Un ramo di pesco entra un giorno nella stanzetta di una maestrina, e la maestrina ne coglie un frutto mentre il padrone dell'albero, sindaco del villaggio, conte, e uomo di cuore invano verniciato di scetticismo parigino, passa sotto la finestra.
Il conte Filippo si presenta alla maestrina in atteggiamento sguaiatamente spavaldo, si abbonisce dopo cinque minuti di dialogo, si intenerisce dopo un quarto d'ora, se ne va, dopo mezz'ora, mutato, galantuomo, buono, ricolmo di tutte le migliori intenzioni, con un principio di innamoramento. La signorina Maria Bini ha raccontato la storia della sua vita al conte Filippo, e si è rivelata in tutta la sua dolorante umanità di sedicenne sedotta da un rustico don Giovanni, madre separata dal frutto delle sue viscere, imbarcata subdolamente per l'America, ritornata dopo nove anni e ridottasi a fare la maestra per poter ogni giorno recarsi a un cimitero vicino, nel quale devono giacere la polvere e le ossa della sua bambina.
Il conte Filippo, abbandonata definitivamente la scorza esteriore dello scetticismo e del pariginismo conquistatore, si pone all'opera. Rintraccia il seduttore, un porcospino immorale, dalla cotenna piú spessa di quella di un cinghiale, che ha mandato in America un mezza dozzina di minorenni, che, da perfetto farabutto non può non essere immerso in un brago di maialerie: sua moglie infatti è l'amante del curato, e il curato protegge le capestrerie del marito della sua amante e allontana dal suo capo i fulmini della giustizia.
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