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      Certo è che nella commedia manca ogni altra drammaticità, ogni azione, ogni movente di azione. C'è un intreccio, ma esso rimane pura successione di scene e dialoghi, senza anima, senza interiorità. Un ingegnere che è stato rovinato da un giovinastro scioperato, e inventa un nuovo aeroplano: un giovinastro scioperato che, dopo commessa una grave colpa, viene toccato dallo spirito del bene e diventa pilota, e si redime. Una signorina che all'insaputa del papà, accompagna il suo amico nei voli e, coi capricci, riesce a farsi condurre a bordo anche per il volo di prova della nuova macchina inventata dal papà e guidata dall'amico convertito al lavoro e all'attività buona. Il nucleo di ogni scena, di ogni dialogo è sempre e solo: l'aeroplano, il volo, che sostituisce la continuità drammatica, che determina un'unità fittizia e puramente esteriore. La commedia è condotta sul canovaccio di una pochade: l'elemento sensuale è sostituito dalla declamazione eroica o letteraria, ma l'impostazione è la stessa: una macchina, non l'interiorità passionale, un susseguirsi di scene, non l'azione, declamazione letteraria piú o meno, non espressione spirituale. Il pubblico ha fatto giustizia dei tre atti del signor Paolo Teglio senza molti sforzi e con molto tedio.
      (8 marzo 1918).
      «Don Cecè Sferlazza» di Barbiera all'Alfieri. È la storia di una beffa, che culmina anch'essa in una mangiata, come tutte le beffe classiche. Ma il Barbiera non è un poeta come Sem Benelli: e don Cecè non è Giannetto. Don Cecè è uno scrocco, una macchietta da villaggio siciliano, che i «galantuomini» del paese nutrono, e fanno diventare assessore, perché se ne divertono, perché egli li sollazza con le sue millanterie e i suoi pettegolezzi.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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