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      Don Ferrante è un logico serrato, e il suo ragionamento non fa una grinza. Dal contrasto tra la realtà e il ragionamento scoppia irresistibile la comicità del personaggio manzoniano, che muore di peste, persuaso però sempre che in essa non entri il contagio. Un personaggio della stessa comicità sembrava che il Martoglio avesse introdotto nella sua commedia il Contravveleno. Nel primo atto don Procopio ha davvero un qualcosa di manzoniano: egli ragiona del colera, dei microbi, del contagio, con la stessa serietà scientifica di don Ferrante. Ma, in complesso, ha una nozione del fenomeno epidemico che si avvicina alla realtà. Gli manca però la precisione e l'esattezza nella descrizione, che è sostituita dalla fede nel sapere e nella cultura moderna. Il pubblico cui si rivolge, per illuminare e scacciare la superstizione, è refrattario, non comprende neppure gli elementari concetti, e don Procopio si avvolge in una matassa di parole strambe, che vengono sfigurate ancora e contorte. Il primo atto è prolisso, esagerato farsescamente nei particolari, eseguito in fretta e senza alcuna cura, ma pure riesce a porre in rilievo questo personaggio, a fargli iniziare un'azione che pare debba continuare. Resisterà la scienza di don Procopio alla suggestione del mondo che lo circonda, soccomberà o trionferà egli, nella sua coscienza, della superstizione dell'ambiente? Estenuato da un digiuno troppo lungo, egli divora avidamente un cibo indigesto e pesante, beve un po' di vino: l'inedia soddisfatta brutalmente lo fa vacillare, lo intorpidisce: si grida al sortilegio, al colera trasmesso per magia.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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