Certo l'essere dialettale, l'adagiarsi nelle manifestazioni umane piú vicine all'originarietà umana, dànno questo carattere specifico al teatro siciliano, dànno tutte queste possibilità espressive ad Angelo Musco. Ma è la quistione solita dell'uovo e della gallina: Musco ha il teatro che si merita solo perché se lo merita, perché lo comprende, lo rivive. E il suo merito non è sempre uguale infatti: egli ha qualche volta il torto di sforzare interpretazioni impossibili, perché il lavoro è vuoto di ogni espressività. Ma diventa grande quando l'autore dà almeno uno spunto artistico, che dia possibilità di continuazione, di integrazioni. Basta ricordare Angelo Musco in Liolà di Luigi Pirandello, una delle piú belle commedie moderne che la sguaiata critica pseudo-moraleggiante ha fatto quasi del tutto ritirare dal repertorio.
(29 marzo 1918).
Giosuè Borsi. Giosuè Borsi è egli stesso un rinnovellato della guerra (nella memoria degli amici, almeno, perché morto al fronte). La compagnia Zago ha presentato un suo lavoruccio, di quando il Borsi era ancora volterriano, anticlericale, alla Carducci. Commediola informe, leggera, che potrebbe vivere in un epigramma. A una festa di nozze settecentesca, partecipa il cardinale patriarca di Venezia; egli ricorda la prima confessione ricevuta da sacerdote, e la profonda impressione provatane, perché il penitente era un parricida. Il padre dello sposo, che non ha sentito, ricorda anch'egli qualcosa, e precisamente d'essere stato il primo penitente del patriarca.
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