Nei tre atti si svolge un dramma «interiore» di femminilità offesa e incompresa, con alcune situazioni simili a quelle della «Nora» di Ibsen; simili esteriormente, ma inerti drammaticamente. Il Berta pone il dramma, non lo sviluppa. La sua fantasia non è capace di creare caratteri che abbiano consistenza e solidità umana: il pubblico dovrebbe commuoversi per l'astratta genericità di un dolore ineluttabile in certe situazioni, anche se questo dolore si esprime solo come uggioso belato pecorile e non come umanità individuale straziata che si compone artisticamente in poesia. Una moglie abbandona il tetto coniugale affermando di non essere compresa, e certo pare che cosi sia. Ma il processo drammatico è snervato e superficiale. La protagonista è una povera fanciulla sedotta che si redime nell'amore disinteressato e nel sacrifizio della quotidiana, misera vita familiare. Il seduttore le lascia una eredità di mezzo milione, e questo oro diventa la macchina infernale che distrugge l'amore e la felicità. L'autore abbozza una metafisica dell'oro: nell'oro è la personalità dell'uomo, nell'oro si continua la personalità dell'uomo. L'istinto conduce la donna a voler rinunziare all'eredità: accetta, perché suo marito crede con la ricchezza di poter diventare un grande compositore (egli è violoncellista). Secondo un postulato della metafisica bertiana il bello nasce dal bello, la ricchezza farà bella la casa, dalla bellezza della casa nascerà la bella musica, e il violoncellista che annoterà la bella musica sarà un grande compositore.
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Ibsen Berta
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