In un quadro di Pompei, Medea assiste all'uccisione dei figli, ma il suo volto è ricoperto da un drappo: il pittore non osò effigiarne la maschera atroce. Cavalcante ricade nell'arca appena gli pare di aver compreso che suo figlio è morto, senza parole, senza gesti, per Dante. Il lettore, l'osservatore possono immaginare, o forse solo sentire un tonfo, un brivido, che li immedesima col dramma: non di piú, forse. Lo Zorzi non è certo riuscito a ottenere di piú, non è riuscito neppure a determinare quel tonfo, quel brivido. È voluto uscire dai limiti, non ha creato nulla: disillusione.
Una donna (una madre), abbandonata dal marito dopo pochi mesi di convivenza fredda ed esteriore, per vent'anni si salva nell'affetto del figlio. È la matrona, la Giulia romana, che fila e alleva la prole in castità. La passione, Afrodite, dorme in lei, non la scuote, non la tormenta. Conosce il poeta Manfredi (il pericolo del poeta in iscena è stato superato dallo Zorzi con misura e garbo), si innamora, con innocenza, con candore. Il figlio interviene brutalmente, selvaticamente, in una scena che è la piú bella e la piú efficace del dramma. Il poeta parte. La contessa Usberti langue, si consuma. Un uomo di scienza, il dottor Albani, trova la parola «umana»; il figlio deve permettere alla madre di amare, contro tutte le leggi, contro tutte le morali, contro tutte le vergogne. È un uomo di scienza che parla: la tesi ne diventa «umana», perde ogni sapore di facile e dilettantesca audacia verbale. E il figlio acconsente e richiama il Manfredi.
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