Glauco è sulla poppa della nave e tende le braccia alla fanciulla che si abbatte su una pietra della riva, come schiacciata da un'altra pietra invisibile.
Cosí all'inizio si prospetta un fondamentale contrasto, sul quale dovrebbe correre tutta la tessitura della tragedia.
Piú che di sentimenti, vuol essere contrasto di aspirazioni e di concezioni. Forse, e bisogna pur dire subito queste parole, anche se in esse e già implicito un giudizio, è piú che altro un contrasto di tesi e di simboli. Il quadro vuol quindi avere una cornice piú ampia di quella di ogni comune azione scenica nella quale uomini parlano e vogliono e agiscono e il ricorso a personaggi, scene e decorazioni mitologiche è fondamentalmente giustificato da questa aspirazione. Ma fin dal primo atto appaiono gli strappi e attraverso di essi l'arida, ossuta schematicità dei simboli: la fanciulla che invoca la virtú come la sola cosa che può fare di una capanna una reggia, le soddisfazioni e le dolcezze umili, le grettezze, le bassezze anche della vita contrastanti con l'ardore di un sogno.
Tutto ciò l'autore vuol rendere concreto e vivente in modo che sia drammatico e lirico insieme, ma la scena decorativa e simbolica rende stentato, difficile a esser còlto immediatamente il ritmo della vita, e la lirica non c'è ancora.
Dopo il primo atto il difetto si accentua. Glauco è andato in Colchide, ha combattuto e vinto, ha liberato un popolo, è diventato re e giunge, nel viaggio di ritorno, all'isola di Circe. È un dominatore che arriva e la maga lo vuol conquistare con le sue arti, avvincerlo, tenerlo per sempre legato a sé col suo magico influsso, come tiene chiusi in stalla gli altri eroi che sono venuti per godere di lei, e ch'essa ha cambiato in porci.
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Colchide Circe
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