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      Glauco vince. Fingendosi ubriaco e dormente carpisce alla dea il bacio che lo rende immortale e poi respingendone l'amplesso fugge, richiamato dal ricordo di Scilla, dalla voce sempre viva dell'amore di lei. La sua nave si allontana veloce spinta dai tritoni, e la dea si vendica, recide il filo della vita di Scilla, strappandolo dalle mani delle Parche.
      Cosí quando l'eroe giunge alla Sicilia e scende alla riva i pastori stanno piangendo la morte della ragazza che si è gettata in mare. Il corpicino giace sulla sabbia e dopo essersi fatto legare a esso con la catena dell'ancora, Glauco si fa gettare in mare. Dalla profondità salgono ancora il suo lamento e il suo pianto.
      Questa, nella sua trama e nella sua conclusione, la favola. E di piú che la favola che vi è in questo dramma? L'autore, dicevamo, ha voluto metterci grandi cose. Per velare dietro di esso grandi cose ha scelto e sceneggiato un soggetto mitologico. Le cose grandi però, sono rimaste cosí, dietro un velo, una velleità senza espressione definita. Tale è pure la liricità di questa tragedia. È esatto dire che si tratta di un tentativo apertamente confessato di fare in teatro cosa, se non nuova, diversa almeno dal comune, di trasfigurare l'azione scenica con una intuizione di poesia. Ma è pure esatto dire che il tentativo è fallito. La mitologia ha inaridito la fonte della poesia, invece di alimentarla. Chi conosca la serena e grande poesia dei miti greci, non ravvisa in questa tragedia che un travestimento di problemi o di pseudoproblemi moderni.


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Letteratura e vita nazionale
di Antonio Gramsci
pagine 573

   





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