Ho incominciato a comprare qualcosa dal bettolino del carcere: le steariche per la notte, il latte per il mattino, una minestra con brodo di carne e un pezzo di lesso, formaggio, vino, mele, sigarette, giornali e riviste illustrate. Sono passato dalla cella comune alla camera a pagamento senza preavviso, cosa per cui rimasi un giorno senza mangiare, dato che il carcere passa il vitto solo agli abitatori delle celle comuni, mentre quelli delle camere a pagamento devono «vittarsi» (termine carcerario) del proprio. La camera a pagamento consistette per me nel fatto che aggiunsero un materasso di lana e un cuscino idem al saccone di crine, e che la cella fu arredata di un lavabo con catinella e boccale e di una sedia. Avrei dovuto avere anche un tavolino, un reggipanni e un armadietto ma l'amministrazione mancava di «casermaggio» (altro termine carcerario): ebbi anche la luce elettrica ma senza interruttore, sicché tutta la notte mi rigiravo per proteggere gli occhi dalla luce. La vita trascorreva cosí: alle 7 del mattino sveglia e pulizia della camera; verso le 9 il latte, che poi divenne caffè e latte quando incominciai a ricevere il vitto dalla trattoria. Il caffè giungeva di solito ancora tiepido, il latte invece era sempre freddo, ma io facevo allora una abbondantissima zuppa. Dalle nove a mezzogiorno capitava l'ora del passeggio: un'ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e di salutare chiunque, e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile.
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