Nella folla che attendeva, l'Unico riconobbe tra i criminali comuni (mafiosi) un altro tipo, siciliano (l'Unico deve essere napoletano o giú di lí), arrestato per motivi compositi, tra il politico e il comune, e si passò alle presentazioni. Mi presentò: l'altro mi guardò a lungo, poi domandò: «Gramsci, Antonio?» Sí, Antonio!, risposi. «Non può essere, replicò, perché Antonio Gramsci deve essere un gigante e non un uomo cosí piccolo». - Non disse piú nulla, si ritirò in un angolo, si sedette su uno strumento innominabile e stette, come Mario sulle rovine di Cartagine, a meditare sulle proprie illusioni perdute. Evitò accuratamente di parlare ancora con me durante il tempo in cui restammo ancora nello stesso camerone e non mi salutò quando ci separarono. - Un altro episodio simile mi successe più tardi, ma, credo, ancor piú interessante e complesso. Stavamo per partire; i carabinieri di scorta ci avevano già messo i ferri e le catene; ero stato legato in un modo nuovo e spiacevolissimo, poiché i ferri mi tenevano i polsi rigidamente, essendo l'osso del polso fuori del ferro e battendo contro il ferro stesso in modo doloroso. Entrò il capo scorta, un brigadiere gigantesco, che nel fare l'appello si fermò al mio nome e mi domandò se ero parente del «famoso deputato Gramsci». Risposi che ero io stesso quell'uomo e mi osservò con sguardo compassionevole e mormorando qualcosa di incomprensibile. A tutte le fermate lo sentii che parlava di me, sempre qualificandomi come il «famoso deputato», nei crocchi che si formavano intorno al cellulare (devo aggiungere che mi aveva fatto mettere i ferri in modo piú sopportabile), tanto che, dato il vento che spira, pensavo che, oltre tutto, potevo avere anche qualche bastonata da qualche esaltato.
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