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      Credo che ti debba essere alquanto stizzito con me per la precedente lettera, poiché non mi hai ancora risposto. Ci ho ripensato su e pare anche a me di avere esagerato molto. Ciò dipende dal fatto che la vita improduttiva del carcere, che ti costringe a diventare parassita di qualcuno, rende anche suscettibili e irritabili in sommo grado. Avrei dovuto pensare che era la mamma che scriveva e che pertanto a molte espressioni, che potevano sembrare pungenti, bisognava passar sopra, per la certa mancanza di intenzione. Perciò, ti prego, di queste faccende scrivimi solo tu, non incaricare la mamma, e scrivimi con la massima franchezza. La mamma la conosci anche tu: se deve scrivermi che tu non hai soldi e perciò non mi hai mandato nulla (e io non avevo nessun bisogno, perché era provvisto, oltre la scorta di 700 lire, di altre 400 lire) incomincia con lo scrivere che in tutta la Sardegna la miseria è grande, che le imposte sono aumentate, che il raccolto fallirà, che il podestà impone di rifare la facciata alle case e i marciapiedi alle strade. Insomma mi pareva che scrivesse una lettera che dovesse essere letta dall'agente delle imposte. La colpa è mia, perché avrei dovuto ricordare come pensa la mamma, ma tuttavia mi è sembrato che un tal modo di scrivere significasse che io sono diventato come un estraneo, come uno al quale si deve una rendita e poiché non la si può pagare, si incomincia a girare intorno, ricordando che la chioccia ha schiacciato i pulcini, che la cavalla del rettore di Zuri ha partorito un polledrino con le corna, ciò che vuol dire che il finimondo si avvicina e bisogna pensare alla salvezza della propria anima piuttosto che ai soldi, ecc.


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Lettere dal carcere
di Antonio Gramsci
pagine 803

   





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