Per esempio, in una lettera del 17 luglio 1853 al padre egli scrive: «Di voi già non ho nuove da due mesi; da quattro e forse piú delle sorelle; e da qualche tempo di Bertrando (suo fratello). Credete voi che in un uomo come me, che mi pregio di avere un cuore affettuoso e giovanissimo, questa privazione non debba tornarmi oltre ogni modo dolorosissima? Io non penso che sia ora amato meno di quello che sono stato sempre dalla mia famiglia; ma la sventura suol fare due effetti, che spesso lasci spegnere ogni affetto verso gli sventurati e non meno spesso spegne negli sventurati ogni affetto verso di tutti. Io non temo il primo di questi due effetti in voi, quanto il secondo in me; dappoiché, sequestrato come sono qui da ogni commercio umano ed amorevole, il tedio grande, la prigionia lunga, il sospetto di essere dimenticato da ognuno mi amareggiano e isteriliscono lentamente il cuore». Come dicevo, a parte il linguaggio corrispondente alla temperie sentimentale dell'epoca, lo stato d'animo appare con molto rilievo. E, ciò che mi conforta, lo Spaventa non fu certo un carattere debole, un piagnucolone come altri. Egli fu dei pochi (una sessantina) che dei piú che seicento condannati nel '48 non volle mai fare domande di grazie al re di Napoli; né si diede alla devozione, anzi, come scrive spesso, si andò sempre piú persuadendo che la filosofia di Hegel era l'unico sistema e l'unica concezione del mondo razionali e degni del pensiero d'allora.
Sai, poi, quale sarà l'effetto pratico di questa concordanza trovata tra i miei stati d'animo e quelli di un detenuto politico del '48? Che ormai essi mi sembreranno un po' comici, buffamente anacronistici.
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