Il problema è questo: se l'America, col peso implacabile della sua produzione economica (e cioè indirettamente) costringerà o sta costringendo l'Europa a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata, che sarebbe avvenuto lo stesso, ma con ritmo lento e che immediatamente si presenta invece come un contraccolpo della «prepotenza» americana, se cioè si sta verificando una trasformazione delle basi materiali della civiltà europea, ciò che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è piú rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della forma di civiltà esistente e alla forzata nascita di una nuova civiltà.
Gli elementi di «nuova cultura» e di «nuovo modo di vita» che oggi si diffondono sotto l'etichetta americana, sono appena i primi tentativi a tastoni, dovuti non già a un «ordine» che nasce da una nuova assise, che ancora non si è formata, ma all'iniziativa superficiale e scimmiesca degli elementi che incominciano a sentirsi socialmente spostati dall'operare (ancora distruttivo e dissolutivo) della nuova assise in formazione. Ciò che oggi viene chiamato «americanismo» è in gran parte la critica preventiva dei vecchi strati che dal possibile nuovo ordine saranno appunto schiacciati e che sono già preda di un'ondata di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione, è un tentativo di reazione incosciente di chi è impotente a ricostruire e fa leva sugli aspetti negativi del rivolgimento. Non è dai gruppi sociali «condannati» dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi «devono» trovare il sistema di vita «originale» e non di marca americana, per far diventare «libertà» ciò che oggi è «necessità».
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