Mi pare sia importante in questo esame di un punto essenziale di arte politica evitare sistematicamente ogni accenno extrapolitico (in senso tecnico, cioè fuori della sfera tecnicamente politica), cioè umanitario, o di una determinata ideologia politica (non perché l’«umanitarismo» non sia anch’esso una politica ecc.). Per questo paragrafo è indispensabile ricorrere all’articolo del prof. Mario Camis pubblicato nel fascicolo gennaio-febbraio della «Riforma Sociale» del 1926.
[Esercito nazionale e apoliticità.] Aldo Valori nel «Corriere della Sera» del 17 novembre 1931, pubblica un articolo (L’esercito di una volta) sul libro di Emilio De Bono Nell’esercito nostro prima della guerra (Mondadori, 1931) che dev’essere interessante, e riporta questo brano: «si leggeva poco, poco i giornali, poco i romanzi, poco il "Giornale ufficiale" e le circolari di servizio... Nessuno si occupava di politica. Io, per esempio, mi ricordo di non aver mai badato alle crisi ministeriali, di aver saputo per puro caso il nome del presidente del Consiglio... Ci interessavano i periodi elettorali perché davano diritto a dodici giorni di licenza per andare a votare. L’ottanta per cento però si godeva la licenza e non guardava le urne neppure in fotografia». E il Valori osserva: «Può parere un’esagerazione, e invece non è. Astenersi dalla politica non voleva dire estraniarsi dalla vita della nazione, ma dagli aspetti piú bassi della lotta fra partiti. Cosí comportandosi, l’esercito rimase immune dalla degenerazione di molti altri pubblici istituti e costituí la grande riserva delle forze dell’ordine; il che era il modo piú sicuro per giovare, anche politicamente, alla Nazione».
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