Non conosco nulla di piú deprimente che questa attesa del male che si può ricevere, unita alla totale impotenza di sottrarsi ad esso. Con gradazioni e sfumature tutti conoscono questa stretta al cuore, questa profonda mancanza di sicurezza interiore, questo senso di essere incessantemente esposto senza difesa a tutti gli accidenti, dal piccolo fastidio di alcuni giorni di prigione alla morte inclusa. Non vi è rifugio: non scampo, non tregua soprattutto. Non rimane altro che offrire il dorso, che rimpicciolirsi quanto è possibile. Una vera timidità generale s’era impadronita di me, la mia immaginazione non mi presentava piú il possibile con quella vivacità che gli conferisce in anticipo l’aspetto di realtà: in me era inaridita l’iniziativa. Credo che mi sarei trovato davanti alle piú belle occasioni di fuga senza saperne approfittare; mi sarebbe mancato quel non so che, che aiuta a colmare l’intervallo fra ciò che si vede e ciò che si vuol fare, fra le circostanze e l’atto che ne rende padroni; non avrei piú avuto fede nella mia buona sorte: la paura mi avrebbe fermato».
Il pianto in carcere: gli altri sentono se il pianto è «meccanico» o «angoscioso». Reazione diversa quando qualcuno grida: «Voglio morire». Collera e sdegno o semplice chiasso. Si sente che tutti sono angosciati quando il pianto è sincero. Pianto dei piú giovani. L’idea della morte si presenta per la prima volta (si diventa vecchi d’un colpo).
La metafora dell’ostetrica e quella di Michelangelo. La metafora dell’ostetrica che aiuta, coi ferri, il neonato a nascere dall’alvo materno e il principio espresso da Michelangelo nei versi: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto - che un marmo solo in sé non circoscriva - col suo soverchio e solo a quello arriva - la mano che obbedisce all’intelletto». Togliere il soverchio di marmo che nasconde la figura concepita dall’artista a colpi di martello sul blocco corrisponde all’operazione dell’ostetrica che trae alla luce il neonato squarciando il seno materno.
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Michelangelo Michelangelo
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