È ancora strano che il Rossi non s’accorga delle contraddizioni in cui cade affermando: «Tuttavia se per Rinascimento senza complementi s’ha ad intendere, come a me non par dubbio, tutto il multiforme prorompere dell’attività umana nei secoli dall’XI al XVI, indizio fra tutti cospicuo del Rinascimento vuol essere considerato, non il rifiorire della cultura latina, ma il sorgere della letteratura in lingua volgare, da cui acquista rilievo uno dei piú notevoli prodotti di quella energia, lo scindersi dell’unità medioevale in differenziate entità nazionali». Il Rossi ha una concezione realistica e storicistica del Rinascimento, ma non sa abbandonare completamente la vecchia concezione retorica e letteraria: ecco l’origine delle sue contraddizioni e della sua acribia; il sorgere del volgare segna un distacco dall’antichità, ed è da spiegare come a questo fenomeno si accompagni una rinascita del latino letterario. Giustamente dice il Rossi che «l’uso che un popolo faccia d’una piuttosto che di un’altra lingua per disinteressati fini intellettuali, non è capriccio di individui o di collettività, ma è spontaneità di una peculiare vita interiore, balzante nell’unica forma che le sia propria», cioè che ogni lingua è una concezione del mondo integrale, e non solo un vestito che faccia indifferentemente da forma a ogni contenuto. Ma allora? Non significa ciò che erano in lotta due concezioni del mondo: una borghese-popolare, che si esprimeva nel volgare e una aristocratico-feudale che si esprimeva in latino e si richiamava all’antichità romana e che questa lotta caratterizza il Rinascimento e non già la serena creazione di una cultura trionfante?
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