Ciò spiega anche il fenomeno cinquecentesco del «petrarchismo» e la sua insincerità: è un fenomeno puramente cartaceo, perché i sentimenti da cui era nata la poesia del dolce stil nuovo e del Petrarca stesso, non dominano piú la vita pubblica, come non domina piú la borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in decadenza. Politicamente domina un’aristocrazia in gran parte di parvenus, raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa produce la cultura del Cinquecento e aiuta le arti, ma politicamente è limitata e finisce sotto il dominio straniero.
Cosí il Rossi non può vedere le origini di classe del passaggio dalla Sicilia a Bologna e alla Toscana della prima poesia in volgare. Egli pone accanto il «preumanismo (nel suo senso) imperiale ed ecclesiastico di Pier delle Vigne e di maestro Berardo da Napoli, cosí cordialmente odiato dal Petrarca» e che ha «ancora radice nel sentimento della continuità imperiale della vita antica» (cioè è ancora Medio latino, come il «preumanismo» comunale dei filologi e poeti veronesi e padovani e dei grammatici e retori bolognesi) con la scuola poetica siciliana e dice che l’uno e l’altro fenomeno sarebbero stati sterili perché ambedue legati «ad un mondo politico e intellettuale ormai tramontato»; la scuola siciliana non fu sterile, perché Bologna e la Toscana ne animarono «il vuoto tecnicismo del nuovo spirito culturale democratico». Ma è giusto questo nesso interpretativo? In Sicilia la borghesia mercantile si sviluppò sotto l’involucro monarchico e con Federico II si trovò coinvolta nella quistione del Sacro Romano Impero della Nazione germanica: Federico era un monarca assoluto in Sicilia e nel Mezzogiorno, ma era anche l’Imperatore medioevale.
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