«Umanesimo non è latinismo; è affermazione di umanità piena, e l’umanità degli umanisti italiani era, nella sua storicità, italiana; talché esprimersi non poteva se non nel volgare che anche gli umanisti parlavano nella pratica della vita e che, malgrado ogni proposito classicheggiante, forzava baldanzosamente i cancelli del loro latino. Potevano essi, astraendosi dalla vita, sognare il loro sogno, e fermi nell’idea che letteratura degna di questo nome non potesse darsi se non in latino, ripudiare la nuova lingua; altra era la realtà storica, della quale essi stessi e quel loro spirito sognante erano figli e nella quale vivevano la loro vita di uomini nati quasi un millennio e mezzo dopo il grande oratore romano». Che significa tutto ciò? Perché questa distinzione tra latino-sogno e volgare-realtà storica? E perché il latino non era una realtà storica? Il Rossi non sa spiegare questo bilinguismo degli intellettuali, cioè non vuol ammettere che il volgare, per gli umanisti, era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale e che pertanto gli umanisti erano i continuatori dell’universalismo medioevale - in altre forme si capisce - e non un elemento nazionale; erano una «casta cosmopolita», per i quali l’Italia rappresentava forse ciò che [è] la regione nella cornice nazionale moderna, ma nulla di piú e di meglio: essi erano apolitici e anazionali.
«C’era nel classicismo umanistico, non piú un fine di moralità religiosa, bensí un fine di educazione integrale dell’anima umana; c’era soprattutto la riabilitazione dello spirito umano, come creatore della vita e della storia», ecc., ecc.
| |
Rossi Italia
|