L’individualità che piú occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, ma non tanto nelle sue opere cosí dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto negli opuscoli d’occasione e nelle lettere. Il Ferrari però era in gran parte fuori della concreta realtà italiana: si era troppo infranciosato. Spesso i suoi giudizi paiono piú acuti di ciò che realmente sono, perché egli applicava all’Italia schemi francesi, i quali rappresentavano situazioni ben piú avanzate di quelle italiane. Si può dire che il Ferrari si trovava, nei confronti con l’Italia, nella posizione di un «postero», e che il suo fosse in un certo senso un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore effettuale ed attuale; il Ferrari non vedeva che tra la situazione italiana e quella francese mancava un anello intermedio e che proprio questo anello importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe «tradurre» il francese in italiano e perciò la sua stessa «acutezza» diventava un elemento di confusione, suscitava nuove sètte e scolette ma non incideva nel movimento reale.
Se si approfondisce la quistione, appare che, per molti riguardi, la differenza tra molti uomini del Partito d’Azione e i moderati era piú di «temperamento» che di carattere organicamente politico. Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della Rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo.
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