Da questa serie di osservazioni e di analisi di alcuni elementi della storia italiana dopo l’unità si possono ricavare alcuni criteri per apprezzare la posizione di contrasto tra i moderati e il Partito d’Azione, e per ricercare la diversa «saggezza» politica di questi due partiti e delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica dell’ultimo di essi. È evidente che, per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che piú li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali). Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande Rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre piú importanti.
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