Cosí noi commemoravamo i nostri morti. Non vane parole. Non richiami singhiozzanti a sfumate entità umanitarie, ad abbracciamenti generali per vendicare una vita sacrilegamente violentata, ma l'inquadramento delle nostre forze nei ferrei ranghi della solidarietà di classe, ma maree nereggianti di rudi uomini che calavano nei boulevards cittadini a sfilare innanzi alle saracinesche abbassate dei pallidi piccoli uomini della vigilia, rodentisi di rabbia compressa e di paura. Cosí commemoravamo i nostri morti, col sangue dei nostri migliori, e colla promessa di un domani migliore.
Perciò non possiamo non sentir strazio per il piccolo Belgio schiantato, per Miss Cavell caduta sotto il piombo d'un ufficiale prussiano nel compimento del suo dovere di carità. Ma è strazio austero il nostro, che non fluisce in componimenti a rime obbligate, né si inquadra nelle vaneggianti ambagi di un discorso d'occasione. Ci sentiamo presi come nel volante di una macchina che il nostro braccio non può fermare e rinchiudiamo dentro di noi il dolore che c'invetrisce le pupille. Forze naturali irresistibili sono traboccate da argini di carta straccia e vediamo galleggiare cadaveri sulle livide acque, cadaveri di bimbi e di donne strappati dai focolari e dalla culla; e la loro morte ci pare anche piú tragica, perché inutile, perché non rispondente ad una logica dell'azione, ad una necessità della propria conservazione, ma solo ad una concezione meccanica del regolamento della disciplina. Però non ci cospargiamo i capelli di cenere, né ci battiamo le anche in atteggiamento di prefiche, pagate ad una tanto, per il grado della loro commozione.
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Belgio Miss Cavell
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