La risposta non è facile, o è troppo facile. Problema di organizzazione, senza dubbio, e di criteri informativi. La miglior risposta dovrebbe consistere nel far qualcosa di meglio, nella dimostrazione concreta che si può far meglio e che è possibile radunare intorno ad un focolaio di cultura un pubblico, purché questo focolaio sia vivo e riscaldi davvero. A Torino, l'Università popolare è una fiamma fredda. Non è né università, né popolare. I suoi dirigenti sono dei dilettanti in fatto di organizzazione di cultura. Ciò che li fa operare è un blando e scialbo spirito di beneficienza, non un desiderio vivo e fecondo di contribuire all'elevamento spirituale della moltitudine attraverso l'insegnamento. Come negli istituti di volgare beneficenza, essi nella scuola distribuiscono delle sporte di viveri che riempiono lo stomaco, producono magari delle indigestioni allo stomaco, ma non lasciano una traccia, ma non hanno un seguito di nuova vita, di vita diversa. I dirigenti dell'Università popolare sanno che l'istituzione che essi guidano deve servire per una determinata categoria di persone, la quale non ha potuto seguire gli studi regolari nelle scuole. E basta. Non si preoccupano del come questa categoria di persone possa nel modo piú efficace essere accostata al mondo della conoscenza. Trovano negli istituti di cultura già esistenti un modello: lo ricalcano, lo peggiorano. Fanno presso a poco questo ragionamento: chi frequenta i corsi dell'Università popolare ha l'età e la formazione generale di chi frequenta le università pubbliche: dunque diamogli un surrogato di queste.
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