Non abbiamo nessuna simpatia per quelle abitudini di sbrigliatezza e di rilucente vanità mentale, che si introdussero nel nostro paese col nome di sindacalismo teorico. Ma, mentre i discepoli o quelli che si vantavano per tali, si isterilivano in un giuoco di pirotecnica intellettuale, o, entrati nella pratica della politica e dell’organizzazione, annegavano infine, sotto pretesto di interventismo, nella melma democratica e bloccarda, il Sorel era temperamento troppo finemente critico per adattarsi a schematizzazioni arbitrarie e affrettate, ed era poi animato da un troppo sincero amore della causa del proletariato per perdere ogni contatto con la vita, ogni intelligenza della storia di esso. Il rigore e la precisione del ragionamento e l’impetuosità polemica erano e sono in lui accompagnate da una immediata e limpida intuizione dei bisogni della vita operaia, e della sua fresca originalità. Nelle migliori cose sue egli pare riscuotere in sé un poco delle virtú dei due suoi maestri: l’aspra logica di Marx, e la commossa e plebea eloquenza di Proudhon. Ed egli non si è chiuso in nessuna formula, e oggi, conservando quanto vi era di vitale e di nuovo nella sua dottrina, cioè l’affermata esigenza che il moto proletario si esprima in forme proprie, dia vita a proprie istituzioni, oggi egli può seguire non solo con occhio pieno di intelligenza, ma con animo pieno di comprensione, il movimento realizzatore iniziato dagli operai e dai contadini russi, e può chiamare ancora «compagni» i socialisti d’Italia che vogliono seguire quell’esempio.
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