Muovendo da questa cellula, la fabbrica, vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre piú vaste unità, fino alla nazione, che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione, caratterizzato dalle sue esportazioni, dalla somma di ricchezza che scambia con una equivalente somma di ricchezza confluente da ogni parte del mondo, dai molteplici altri giganteschi apparati di produzione in cui si distingue il mondo. Allora l’operaio è produttore, perché ha acquistato coscienza della sua funzione nel processo produttivo, in tutti i suoi gradi, dalla fabbrica alla nazione, al mondo; allora egli sente la classe, e diventa comunista, perché la proprietà privata non è funzione della produttività, e diventa rivoluzionario perché concepisce il capitalista, il privato proprietario, come un punto morto, come un ingombro, che bisogna eliminare. Allora concepisce lo «Stato», concepisce una organizzazione complessa della società, una forma concreta della società, perché essa non è che la forma del gigantesco apparato di produzione che riflette, con tutti i rapporti e le relazioni e le funzioni nuove e superiori domandate dalla sua immane grandezza, la vita dell’officina, che rappresenta il complesso, armonizzato e gerarchizzato, delle condizioni necessarie perché la sua industria, perché la sua officina, perché la sua personalità di produttore viva e si sviluppi.
La pratica italiana del sindacalismo pseudorivoluzionario è negata dal movimento torinese dei commissari di reparto cosí come la pratica del sindacalismo riformista: è negata in doppio grado, poiché il sindacalismo riformista rappresenta il superamento del sindacalismo pseudorivoluzionario.
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