Dubitavamo che, trovandoci appena una o due volte la settimana, stanchi ognuno del proprio lavoro, ci fosse impossibile trovare in tutti quella freschezza senza la quale le menti non possono comunicare, gli animi non possono aderire, e la scuola non può compiersi, come serie di atti educativi vissuti e sentiti in comune. Forse ci rendeva scettici l’esperienza delle scuole borghesi, la tediosa esperienza di allievi, l’esperienza dura di insegnanti: l’ambiente freddo, opaco ad ogni luce, resistente ad ogni sforzo di unificazione ideale, quei giovani uniti in quelle aule non dal desiderio di migliorarsi e di capire, ma dallo scopo, forse non detto eppure chiaro e unico in tutti, di farsi avanti, di conquistarsi un «titolo», di collocare là propria vanità e la propria pigrizia, di ingannar oggi se stessi e gli altri domani.
E abbiamo visto intorno a noi, affollati, stretti l’uno all’altro nei banchi scomodi e nello spazio angusto, questi allievi insoliti, per la maggior parte non piú giovani, fuori quindi dell’età in cui l’apprendere è cosa semplice e naturale, tutti poi affaticati da una giornata di officina o di ufficio, seguire con l’attenzione piú intensa il corso della lezione, sforzarsi di segnarlo sulla carta, far sentire in modo concreto che tra chi parla e chi ascolta si è stabilita una corrente vivace di intelligenza e di simpatia. Ciò non sarebbe possibile se in questi operai il desiderio di apprendere non sorgesse da una concezione del mondo che la vita stessa ha loro insegnato e ch’essi sentono il bisogno di chiarire, per possederla completamente, per poterla pienamente attuare.
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