Nella realtà italiana, il funzionario sindacale concepisce la legalità industriale come una perpetuità. Egli troppo spesso la difende da un punto di vista che è lo stesso punto di vista del proprietario. Egli vede solo caos e arbitrio in tutto quanto succede tra la massa operaia: egli non universalizza l’atto di ribellione dell’operaio alla disciplina capitalistica come ribellione, ma come materialità dell’atto che può essere in sé e per sé triviale. Cosí è avvenuto che la storiella dell’«impermeabile del facchino» abbia avuto la stessa diffusione e sia stata interpretata dalla stupidità giornalistica allo stesso modo della storiella sulla «socializzazione delle donne in Russia». In queste condizioni la disciplina sindacale non può essere che un servizio reso al capitale; in queste condizioni ogni tentativo di subordinare il Consiglio al sindacato non può essere giudicato che reazionario.
I comunisti, in quanto vogliono che l’atto rivoluzionario sia, per quanto è possibile, cosciente e responsabile, vogliono che la scelta, per quanto può essere scelta, del momento di scatenare l’offensiva operaia rimanga alla parte piú cosciente e responsabile della classe operaia, a quella parte che è organizzata nel Partito socialista e che piú attivamente partecipa alla vita dell’organizzazione. Per ciò i comunisti non possono volere che il sindacato perda della sua energia disciplinatrice e della sua concentrazione sistematica.
I comunisti, costituendosi in gruppi organizzati permanentemente nei sindacati e nelle fabbriche, devono trasportare nei sindacati e nelle fabbriche le concezioni, le tesi, la tattica della III Internazionale, devono influenzare la disciplina sindacale e determinarne i fini, devono influenzare le deliberazioni dei Consigli di fabbrica e far diventare coscienza e creazione rivoluzionaria gli impulsi alla ribellione che scaturiscono dalla situazione che il capitalismo crea alla classe operaia.
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