È vero che il sistema industriale russo, che riusciva a produrre solo il 15 per cento del fabbisogno nazionale, si fondava in buona parte sul protezionismo statale ed era quindi artificioso, destinato a cadere? Il fenomeno della nascita della piccola industria sul luogo di produzione delle materie prime non rappresenta in tal caso l’inizio di uno sviluppo nuovo e vitale dell’industria russa, che, verificandosi sotto il controllo dello Stato operaio, può rapidamente concentrarsi e sostituire il normale sviluppo del capitalismo e dello strumento di lavoro, allo stesso modo che l’essersi, nell’America del Nord, lo sviluppo storico verificato sotto il controllo e la direzione degli inglesi, giunti a un alto livello di civiltà politica e industriale, ha risparmiato le fasi intermedie di sviluppo dal pellirossa fino al medio industriale?
In tutte queste domande che il proletariato italiano, avido di notizie esatte e intelligenti sulla rivoluzione russa, è in diritto di rivolgere ai suoi funzionari in missione, è contenuta implicitamente una critica della relazione D’Aragona, Bianchi, Colombino. Ma essi sono andati in Russia per raccogliere materiali ai discorsi sulle donne e sulle capacità sessuali che si svolgono nei caffè e negli alberghi, tra una partita e l’altra di scopone. In fondo questa relazione, oltre all’essere un documento di viltà e di leggerezza, oltre all’essere un documento per lo studio della capacità degli italiani a comprendere la storia (da padre Bresciani a Ludovico D’Aragona), è anche un documento dell’insufficienza della democrazia sindacale a esprimere le competenze; come nella democrazia borghese, anche nella democrazia sindacale si domandano ingegneri e si ottengono ballerini.
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