Bergsoniano!(44)
Decisamente, la filosofia nelle file del Partito socialista italiano, e nella mente dei suoi teorici e dei suoi leaders, è destinata a non aver mai fortuna. C’è stato una volta un periodo di esaltazione, un periodo in cui la fede politica e la fede sociale sembrava dovessero di necessità accordarsi con una determinata fede scientifica. Erano i giorni avventurati in cui dell’una e dell’altra fede erano sacerdoti Cesare Lombroso ed i suoi ripetitori, in cui Enrico Ferri era un grande filosofo e grande capo rivoluzionario. Ahimè! il socialismo italiano, che per le grandi masse era allora spontaneo moto di riscossa e di risveglio, movimento di liberazione, iniziato in forme incomposte, senza troppo chiara coscienza di sé, tumultuoso, ma pieno di calore e pieno di ogni possibilità di sviluppo, e pieno soprattutto di fecondo spirito di iniziativa e di tenace volontà di azione, il socialismo italiano, nella mente dei suoi teorici, nella mente dei capi e degli ispiratori, aveva la triste sorte di essere avvicinato al piú arido, secco, sterile, sconsolatamente sterile, pensiero del secolo XIX, al positivismo. La vendetta la fecero le masse stesse. Dopo aver letto o sentito esaltare i libri dei Lombroso e dei Ferri e dei Sergi e altra simile roba positivamente scientifica, esse che avevano pur bisogno di credere per operare, si vendicarono della scienza facendone una fede. E dei saggi della positività scientifica fecero altrettanti santoni. Quelli che erano scienziati veri se la ebbero a male e tacquero; gli altri si rivelarono per ciò che erano, cioè ciarlatani venditori di una merce e fabbricanti di celebrità. Ma al socialismo italiano restò quel marchio, di essere quasi nato insieme e di aver per tanto tempo fatto vita e cammino comune con il positivismo.
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