Cercarono perciò di rimediare con la reazione. S’illusero che allontanando migliaia e migliaia di operai dalle officine, ristabilendo l’autorità assoluta del padrone, stringendo i freni, rendendo inflessibile la disciplina, le industrie potessero riprendere il loro andamento normale. Errore grave. Trascurata la riorganizzazione del dopoguerra, eliminati elementi insostituibili, generata la sfiducia e il malcontento nell’animo degli operai, la produzione si fece piú scadente. Oltre la crisi un altro grave pericolo minaccia la Fiat: la decadenza. La prima prova clamorosa?
La vergognosa sconfitta di Brescia.
Aprile e settembre 1920(76)
L’anniversario dell’occupazione delle fabbriche ha servito a rimettere in circolazione uno stantio pettegolezzo contro i comunisti torinesi che dovrebbero ritenersi come i maggiori responsabili della mancata estensione del movimento. L’on. Buozzi ha fatto accenno a questa responsabilità nel suo recente discorso alle Commissioni interne metallurgiche milanesi; un altro accenno è contenuto in una corrispondenza torinese a Umanità Nova. La voce aveva passato i confini e Jacques Mesnil l’aveva raccolta in un articolo sul movimento socialista italiano pubblicato nella Revue communiste di Carlo Rappoport.
Mettiamo una volta per sempre le cose a posto. Quando, nel settembre 1920, i funzionari confederali si trovarono innanzi al grandioso sommovimento rivoluzionario provocato dall’iniziativa del Comitato centrale della FIOM, essi affannosamente corsero ai ripari, affannosamente cercarono di scaricare su qualcuno la responsabilità della loro cieca imprevidenza, della loro impreparazione, della loro inettitudine.
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