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      Avevano lanciato centinaia di migliaia di operai nel campo dell’illegalità, nel terreno dell’insurrezione armata e avevano dimenticato una cosa semplicissima: procurare armi agli operai, mettere la classe operaia in grado di impegnare una lotta sanguinosa. A Milano, dove risiedeva lo stato maggiore del movimento, non si erano neppure curati di fare un inventario e una raccolta delle armi e delle munizioni esistenti nelle fabbriche: a Lecco, sette giorni dopo l’occupazione, la polizia poteva ancora sequestrare 60.000 petardi lasciati nei magazzeni di uno stabilimento, 60.000 petardi che avrebbero permesso un discreto armamento delle maestranze milanesi. D’un colpo, i funzionari sindacali divennero favorevoli all’offensiva operaia; essi anzi avrebbero voluto che l’offensiva partisse da Torino, che Torino si ponesse all’avanguardia del movimento insurrezionale. Il settembre 1920 era troppo vicino all’aprile 1920. Nell’aprile 1920 il proletariato torinese, trascinato in una disperata lotta dagli industriali, per un preciso impegno preso dal convegno della Confederazione dell’industria italiana tenutosi a Milano il 7 marzo precedente, era stato piantato in asso dalla Confederazione generale del lavoro. I torinesi, nell’aprile, erano stati isolati dal resto d’Italia, erano stati mostrati a dito al resto d’Italia come una banda di anarcoidi, di scalmanati, di indisciplinati, di pazzi. Nell’aprile si era giunti fino a fare delle insinuazioni sull’origine dei «fondi» a disposizione dei torinesi per il nolo di un’automobile.


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Scritti politici
Seconda parte
di Antonio Gramsci
pagine 334

   





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