Il corrispondente torinese di Umanità Nova che conosce forse gli sforzi di organizzazione fatti in quel periodo, non conosce certamente molte altre cose. I comunisti cercarono di porre il proletariato torinese nelle condizioni migliori dal punto di vista di una probabile insurrezione; sapevano però che altrove niente si faceva, che nessuna parola d’ordine circolava; sapevano che i dirigenti sindacali, responsabili del movimento, non avevano nessuna intenzione bellicosa.
Per un periodo di tempo brevissimo, di tre o quattro giorni, i dirigenti sindacali furono favorevolissimi all’insurrezione, sollecitarono pazzescamente l’insurrezione. Perché? Pareva che Giolitti, premuto dagli industriali, che minacciarono apertamente di rovesciare il governo con un pronunciamento militarista, volesse passare dalla «omeopatia» alla «chirurgia»; ci furono evidentemente delle minacce da parte di Giolitti. I dirigenti persero la testa: volevano il «fattaccio», volevano una strage locale che permettesse di concludere nazionalmente la vertenza secondo le tradizioni riformistiche. Abbiamo fatto bene o male a rifiutarci a questo gioco infame, che doveva essere azzardato col sangue del proletariato torinese? Davvero che a forza di ripetere, dall’aprile in poi, che i comunisti torinesi erano degli scalmanati, degli irresponsabili, dei localisti, degli avventurieri, i riformisti avevano finito col crederci e col credere che noi ci saremmo prestati al loro gioco. Non sono state giornate facili quelle del settembre 1920; in quei giorni abbiamo acquistato, forse tardi, la precisa e recisa convinzione della necessità della scissione.
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