Poiché il Partito socialista era costituito in maggioranza di elementi piccolo-borghesi e contadini, esso avrebbe potuto fare la rivoluzione solo nei primi tempi dopo l'armistizio, quando i sentimenti di rivolta antigovernativa erano ancora vivaci e attivi; d'altronde, essendo il Partito socialista costituito in maggioranza di piccoli borghesi e di contadini (la cui mentalità non è molto diversa da quella dei piccolo-borghesi di città), esso non poteva che essere oscillante, esitante, senza un programma netto e preciso, senza indirizzo, senza, specialmente, una coscienza internazionalista. L'occupazione delle fabbriche, essenzialmente proletaria, trovò impreparato il Partito socialista, che era solo parzialmente proletario, che era già, per i primi colpi del fascismo, in crisi di coscienza nelle altre sue parti costitutive. La fine dell'occupazione delle fabbriche scompaginò completamente il Partito socialista; le credenze rivoluzionarie infantili e sentimentali caddero completamente; i dolori della guerra si erano in parte attutiti (non si fa una rivoluzione per i ricordi del passato!); il governo borghese apparve ancora forte nella persona di Giolitti e nell'attività fascista; i capi riformisti affermarono che pensare alla rivoluzione comunista in generale era pazzesco; Serrati affermò che era pazzesco pensare alla rivoluzione comunista in Italia, in quel periodo. Solo la minoranza del Partito, formata dalla parte piú avanzata e colta del proletariato industriale, non mutò il suo punto di vista comunista e internazionalista, non si demoralizzò per gli avvenimenti quotidiani, non si lasciò illudere dalle apparenze di robustezza e di energia dello Stato borghese.
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