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      Al contrario essi hanno preferito agire con l'ipocrisia nota a tutti i social-traditori, per mascherare i loro piani controrivoluzionari. E hanno accettato di recarsi in Russia, come D'Aragona e altri, a rappresentare il proletariato rivoluzionario italiano; e hanno mostrato di accettare il concetto della dittatura proletaria, pur deformandolo come nella mozione di Reggio Emilia; e non hanno ripudiato nemmeno il concetto della violenza, come lo stesso Turati si sforzò di provare nei suoi discorsi di Bologna e di Livorno. Questo atteggiamento dei riformisti è stato poi definito cosí da D'Aragona: «I riformisti sono rimasti nel Partito socialista per sabotare la rivoluzione».
      Appunto per sabotare la rivoluzione, cioè per salvare la borghesia dall'avanzata della classe operaia, i riformisti hanno di tradimento in tradimento condotto i lavoratori italiani alla sconfitta, creando cosí le condizioni favorevoli allo sviluppo e al successo del fascismo. Prima della guerra, i riformisti hanno esercitato nel Partito socialista la funzione di controrivoluzionari, facendo accettare alle masse che seguivano questo Partito, benché minoranza, la loro ideologia social-pacifista. Nel dopoguerra, rimanendo nel Partito socialista, i riformisti, che conservavano nelle loro mani le maggiori organizzazioni operaie, hanno potuto, attraverso deviazioni d'ogni sorta, continuare la loro opera controrivoluzionaria, col sistematico sabotaggio di tutti i movimenti che potevano sboccare nella lotta del proletariato per la conquista del potere.


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Scritti politici
Terza parte
di Antonio Gramsci
pagine 415

   





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