Il nazionalismo è principio d'energia e come tale non rifugge dalle piú ardite innovazioni: un economista nazionalista — Filippo Carli — si è fatto banditore del «partecipazionismo» e dell'«azionariato sociale», e la sua propaganda ha trovato larga eco nel campo nazionalista.
Maurizio Maraviglia, come gli altri nazionalisti, crede aver esaurito trionfalmente la sua dimostrazione, affermando la «storicità» del punto di riferimento della sua dottrina. Ma le affermazioni hanno valore dogmatico, ed è questo uno strano modo di essere storicisti e rivoluzionari. La distinzione effettiva tra la dottrina nazionalista e le altre dottrine è implicitamente posta dal Maraviglia stesso in una questione di «dignità», non di storicità; la nazione è piú degna della classe, dei partiti, dei singoli individui. Il rivoluzionarismo internazionalista si riduce quindi ad un'elegantissima questione retorica, simile in tutto alle questioni che i vecchi letterati facevano nel bel tempo antico per stabilire la maggiore dignità di un genere poetico piuttosto che di un altro, di un'opera d'arte piuttosto che di un'altra.
Nella storia non c'è il piú o il meno degno: c'è solo il necessario, il vivo e l'inutile, il cadavere. La classe, il partito, hanno altrettanta dignità che la nazione; essi anzi sono la nazione stessa, che non è un'astratta entità metafisica, ma concreta lotta politica di individui associati per il raggiungimento di un fine. Il fine è l'unica discriminante possibile di «dignità». E il fine non è un fatto, ma un'idea che si realizza attraverso i fatti.
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