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      «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rivelato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l'autore considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi, se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l'Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni dei mercati, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mete da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente, che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti piú indietro o quasi non s'erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possano sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle piú vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l'enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica piú progredita nel paese piú progredito — come sarebbe stato razionale — non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo, sì, ma ormai superate; e se questo fatto non si presentasse «piú utile» per gli industriali, che speculavano sul basso prezzo della mano d'opera e sui privilegi governativi piú che su una produzione tecnicamente perfezionata.
      Nel fare l'analisi della relazione della Banca commerciale italiana all'assemblea sociale per l'esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella Riforma sociale, luglio-agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni: vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme.


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Sul fascismo
di Antonio Gramsci
pagine 418

   





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