Uscendo dalla porta dell'alto paese di Veroli e camminando lungo le sue mura mezzo rovinate, prima di scendere nella pianura, per la prima volta mi si spiegò dinanzi la regione che volevo percorrere. Alla mia destra erano i campi di Ceprano, il ponte ove Manfredi fu tradito e più in là la catena azzurra dei Monti Volsci; alla mia sinistra i monti maestosi di Sora, volti verso gli Abruzzi e pieganti verso il Liri. Ma ciò che sopra ogni cosa attrasse la mia attenzione[281] fu la vetta di un monte, o per dir meglio la linea bianca che lo coronava. Era Arpino, la patria di Cicerone e di Mario. Produce profonda impressione il vedere per la prima volta, e per di più in modo confuso e ad una certa distanza, un luogo che segna due grandi epoche e di cui ci è noto il nome sin dall'infanzia. Mi ritornarono così alla memoria infiniti particolari dell'età giovanile: il mio pensiero si riportò ai banchi della scuola dove ci veniva spiegato Cicerone, si riportò allo stesso volume stracciato e stampato su cartaccia grigia delle sue orazioni ed al tuonante ed indimenticabile Quousque tandem Catilina? Ed ora mi trovavo proprio dinanzi alla patria di Cicerone, dinanzi a quell'Arpino che non avrei sperato o sognato di veder mai.
Non essendovi altra strada carrozzabile all'infuori di quella sotto Casamari, e tutta questa regione latina non avendo altro mezzo di comunicazione con i paesi finitimi se non la Via Latina che porta a Capua, dovetti scendere di cavallo per percorrere lo scosceso sentiero che va fino a Veroli.
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