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      V'eran poi, come è facile a supporsi, nelle città e nei borghi di quelli che la pensavano come i contadini, e v'erano degli abitanti di piccole terre che partecipavano alle opinioni di quelli delle grosse borgate, il che potete pensare quanto dovesse render dolce e riposato il viver civile in quei poveri tempi. Dappertutto profanazioni, violenze, risse e sangue. Frate Aicardo, arcivescovo di Milano, l'abate di Sant'Ambrogio, la maggior parte degli abati dei più ricchi ed insigni monasteri, fuggiti già da un pezzo; la più eletta porzione del clero sì regolare, che secolare, errante, mendica per le terre d'Italia e di Francia; la mensa arcivescovile, le abbazie, i benefici ecclesiastici di minor conto, occupati e tenuti violentemente da' signori laici, o da sacerdoti scismatici amici dell'imperatore.
      In tanta perturbazione, in tanto viluppo di cose, Giovanni Visconte, parente dei principi, che era stato nominato abate di S. Ambrogio, in luogo del vero abate Astolfo da Lampugnano, avea mandato a Limonta procuratore del monastero un furfante, mettitor di dadi malvagi, stato già condannato in Milano come falsario, il quale per vendetta della fedeltà che quei poveri montanari serbavano al loro legittimo signore, li veniva succiando, pelando, scorticando senza pietà, faceva loro mille angherie, mille soprusi, li trattava come roba di rubello. I Limontini si rivolgevano al conte Oldrado perchè s'adoperasse presso l'abate, intercedesse dai signori, facesse valer le loro ragioni; ma gli era come a pestar l'acqua nel mortaio; il conte avea tanti rispetti, tante paure, non voleva commettersi con alcuno, non voleva arrischiare di andar in disgrazia dei Visconti, e compiangendo in cuor suo quei miseri malmenati, gli avrebbe lasciati sparare prima di risolversi a levare un dito per aiutarli.


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Marco Visconti - Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi
di Tommaso Grossi
Vallardi Editore Milano
1958 pagine 484

   





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