Il Pelagrua (tal era il nome del procuratore del monastero) fatto pertanto sempre più animoso e bizzarro, alla fine ne pensò una per disertar del tutto in una volta que' suoi governati, una bricconata temeraria che glieli desse in balìa anima e corpo, come suol dirsi, senza aver a piatire con essi ad ogni piè sospinto. Andò a cavar fuori certe antiche scritture della donazione fatta da Lotario Augusto di quella terra ai monaci di S. Ambrogio, colle quali scritture pretese di far dichiarare i Limontini non già vassalli, com'erano, ma servi del monastero, e citolli a quest'effetto a Bellano per essere giudicati.
Bellano era allora Corte arcivescovile (corte chiamavasi una tenuta dove il signore del feudo avesse casa e chiesa, e più propriamente dove si amministrasse giustizia), e ai messi dell'arcivescovo sarebbe toccata appunto la decisione di una lite di quella natura. Ma essendo l'arcivescovo fuggito dalla diocesi, molti beni della mensa sulla riviera di Lecco e nella Valsassina, e fra questi appunto la corte di Bellano, erano stati occupati da un Cressone Crivello, signore potente e favoreggiatore dei Visconti; perciò non già ai messi arcivescovili, ma a quel del Crivello veniva a devolversi la causa dei Limontini. Ora, questo nuovo signore era troppo palesemente amico del falso abate di S. Ambrogio, troppo interessato a favorire le usurpazioni ch'egli medesimo non cessava di esercitare su i nuovi suoi vassalli, perchè s'avesse ad aspettare da lui altro che male per quei di Limonta.
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