I pochi ghiotti che stavano sulla torre non ebber tempo di salvarsi; il popolo vi salì furibondo, e con una delle sue solite giustizie correnti e sbrigative, ne li fece volar giù ad uno ad uno, dando loro la spinta per lanciarli in un dirupo sottoposto, dove capitombolando si fracassavan le membra. Il Pelagrua, che correva per casa come un insensato, fu preso insieme a cinque suoi satelliti, e fattane una funata, altri voleva precipitarli anch'essi dalla torre, altri gettarli nel lago con un sasso al collo: chi metteva il partito della forca, chi quello della propagginazione (così chiamavasi la pena usata a quei tempi di seppellire un vivo col capo in giù); e già prevalendo quest'ultimo avviso, alcuni eran corsi a pigliare i picconi e le zappe, e cominciavano a preparar le buche sul sagrato dinanzi alla chiesa.
Quel gramaccio del procuratore, bianco come un cencio lavato, coi capelli grigi ritti sulla fronte a guisa di stecchi, cogli occhi spalancati, stupidi, attoniti, le labbra smorte e tremanti, battendo i denti insieme con una voce fiacca e mal sicura, andava ripetendo come macchinalmente: - Confessione! confessione!
- Ah cane paterino! te la darò io con questo la confessione, - gridò Stefanòlo, quel giovinotto che aveva fatto rumore poco prima, ed era uno dei più caldi; e così dicendo gli veniva alla vita con un randello levato in alto, per dargliene sul capo.
Ma il pastore che s'abbattè a trovarglisi ancora vicino, fermandogli la mano: - Oibò, gli disse, ti pare? vorremo noi esser peggiori dei Turchi? confessare, bisogna lasciarlo confessare, se lo domanda.
| |
Pelagrua Stefanòlo Turchi
|