- Venga il Tremacoldo, venga il canonico, - continuava a gridare la torma.
Ed ecco il giullare venir fuori dal palazzo dell'arcivescovo in mezzo a due barbute che gli sgombravano la via, ed entrar nello steccato.
Il falconiere del conte, che come padre d'uno dei campioni avea potuto pigliar posto presso la sbarra, diede una voce al suo Lupo che stava in piedi in mezzo dello steccato, aspettando il fine di quella scenata, e quando questi gli si fu accostato:
- Senti, - gli disse, - guardati bene dal combattere se le armi non son benedette, chè ben sai i sospetti che corrono sul conto di quel birbone là, - e accennava il Ramengo, il quale colle braccia avvolte al petto stava appoggiato alla sbarra dell'altro capo.
- Non abbiate paura, - gli rispose il figliuolo; - lasciate che facciano, le mie armi sono già benedette; le ha benedette stamattina il Messere, ma zitto!
Il povero Ambrogio a tale novella si sentì rimettere il cuore in petto.
In questo mezzo il giullare voltosi al messo e agli spettatori: - Sentite, - diceva, - io ho cantato tutta mattina e ho molta sete; adesso m'apparecchiava ad andar giù nelle cantine dell'arcivescovo a farvi una buona tirata da tedesco, signor sì che mi vengono a tôrre e mi menan qui; vogliono che faccia il prete; ma io dichiaro e protesto che prima di avermi bagnata la bocca, se n'andasse il mondo in rovina, non ne farò nulla, avete capito?
Il messo fe' segno ad un sergente, il quale entrò nel palazzo, e poco dopo ne uscì con un gran fiasco di vino: il Tremacoldo se ne versò una buona tazza piena rasa, la tracannò in un fiato, mise un respirone e disse: - Già, la sete dà buon bere, ma la sua parte però bisogna lasciarla anche al vino: un altro colpetto non farà male; cosi potrò conoscer meglio l'amico e non dargli appunto che quel che gli va.
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Tremacoldo Lupo Ramengo Messere Ambrogio Tremacoldo
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