Le nostre donne, che abbiam lasciate in chiesa, nel momento che venne dalla porta la prima ondata di gente, eransi ricoverate in una cappella, e il falconiere lesto avea richiusi i cancelli per metterle al sicuro, nel tempo che tutto andava a ruba e a conquasso. Qualche birbone s'era ben presentato anche là sbravazzando per farsi aprire, ma Ambrogio, trattasi da lato la sua brava draghinassa, dava sulle mani a quanti non poteva mandar in pace colle buone. Comandò bensì alla figlia di rovesciar sulla mensa i candelieri, la croce, le cartaglorie, che davano pretesto ai furfanti di voler penetrare in quell'asilo, e Lauretta l'obbedì tosto, quantunque la madre la sgridasse, che non si volea partecipare a quella profanazione, che era il caso di patir piuttosto il martirio.
Così stettero rinchiuse per un pezzo, finchè per buona ventura, alcuni del seguito del Conte, che erano accorsi in chiesa, scorsero le donne, e vennero a porsi dinanzi al cancello colle loro armi apprestate, alla vista delle quali passò ai devastatori la voglia di tentar quel posto.
Ci duole d'aver dovuto intrattenere a lungo i lettori di pazze e scellerate profanazioni, e non vorremmo che ci venisse dato carico di non averle presentate con quel senso di gravità che sarebbe stato conveniente. Nel porre per saggio in azione uno, e certo non dei più scandalosi eccessi fra i tanti che accadevano alla giornata in quel tempi infelici, ci siamo ingegnati di farlo in modo che chi legge potesse cavarne un concetto più vicino al vero che si potesse: abbiam voluto a bello studio lasciargliene un'impressione cruda, fastidiosa, quale la si trae dalla lettura delle cronache dei contemporanei; impressione che per esser tale non dovea esser temperata da nessun rispetto, nè consolata da alcuna moralità: la moralità vien dopo da sè stessa, chi ne la vuol cavare.
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Ambrogio Lauretta Conte
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